Amilca Ismael
Il racconto di Nadia
Il Filo, Albatros, 2010
“Oggi vi voglio raccontare la storia del Mozambico, aprite bene le orecchie perché questa non è una storia qualunque, ma è la storia dei nostri antenati. Ricordatevi (…) che le storie raccontate a voce rimangono nella mente proprio come una canzone e noi abbiamo il compito di non dimenticare, bensì di tramandarle di generazione in generazione fino alla fine del mondo”
Nadia ed Elisa sono emigrate dal Mozambico, terra d’origine di entrambe.
La loro amicizia è nata su un volo diretto alla Capitale portoghese, durante il quale un’affascinante empatia tra le due ha aperto la strada a racconti di infanzia dettagliati e indimenticabili.
Un viaggio nello spazio ma anche nel Tempo: Nadia racconta ad Elisa la sua vita nel Mozambico degli anni gli anni ’70 al momento dell’Indipendenza, integrando con i ricordi coloniali tramandati dalla mamma e dall’anziana nonna: “…circa l’origine del nome Mocambique narrano che quando i portoghesi sbarcarono per la prima volta trovarono un uomo e gli chiesero come si chiamasse il luogo dove erano approdati. Pensando che gli avessero chiesto il suo nome, rispose ‘Musa Mbiki’…”.
Tre donne, tre generazioni, piene di saggezza e amore reciproco ma tuttavia adombrate da un uomo.
La luce emanata dalla madre – tramite la figlia Nadia – è durante il racconto affievolita quando parla del marito e lo stesso uomo, come figura paterna, è protagonista di episodi duri e difficili da affrontare per una bambina ( “a casa tutti dovevamo vivere secondo le sue regole, tutti dovevano stare sotto i suoi comandi ed era convinto di avere tutto sotto controllo” e ancora “quando penso a mio padre non so se condannarlo per quello che ha fatto a mia madre o ringraziarlo per quello che ha lasciato dopo la sua morte: una grande famiglia” ).
In un Paese in cui è legale e di uso comune la poligamia, il fulcro dei ricordi è proprio qui: una figlia che chiama “mamma” e “fratello” degli estranei cresciuti tra religione cristiana e religione islamica, una moglie costretta ad accettare figli non suoi.
I sentimenti della donna sono ben rappresentati da questa dichiarazione: “era orribile sapere che tuo marito era con un’altra donna a due passi da te, non riuscivo a dormire solo al pensiero (…) sono sicura che la stessa sensazione la provava anche lei – altra moglie – quando lui era a letto con me”.
Nadia ci fa inoltre vedere una Terra resa viva da bambini estremamente semplici, che sanno fantasticare con lattine vuote e pneumatici che trovano per strada, che sanno gioire della rampicata su un albero da frutto e “consapevoli che per qualche indumento nuovo dovevano passare quindici mesi (…) con pazienza senza reclamare”.
Tra quindici fratellini provenienti da due madri diverse e dallo stesso padre, Nadia racconta soprattutto dell’amato Ussen, con cui ha trascorso tutta l’infanzia a giocare sempre allo stesso gioco, ovvero “trovare sempre una cosa positiva in tutto ciò che accadeva”.
Anche i personaggi di corollario sono parte integrante della narrazione: c’è l’anziana e tenera Nhelete che vive sola con i nipoti ed è disponibile a qualsiasi lavoro per sfamarli; c’è Francisca “la curandeira”, che si improvvisa guaritrice da quando ha perso la sua avvenente bellezza di gioventù.
Ognuno di essi è emblematico per alcune caratteristiche del Mozambico, come ad esempio la superstizione e la fiducia nella guarigione dal malocchio o come la normale presenza di razze miste, conseguente alla caccia al negro venduto da schiavo assieme all’avorio.
Amilca Ismael cela se stessa dietro tutti questi ricordi: una donna forte della sua vibrante comunicazione e semplicità sia in ambito domestico e famigliare, sia in ambito lavorativo come nel precedente “La casa dei Ricordi”.
Ne Il racconto di Nadia rivela anche di essere rimasta la bambina su quell’albero in Mozambico a mangiare more, la bambina che assieme agli amici approfittava segretamente di un passaggio sul camion per andare al mare, la bambina che protegge il fratello quando suona l’amata chitarra del padre, la bambina capace di ascoltare e far tesoro delle tradizioni.
Un libro imperdibile, che descrive con semplicità una storia complicata e commovente.
Durante la lettura mi son vista davanti agli occhi ogni minima descrizione, ho sentito sulla pelle il caldo dell’aria in Mozambico e ascoltato le parole di nonna Cristina.
Ho imparato che davvero esiste qualcuno che riesce sinceramente a ridere e gioire delle avversità e ho imparato che nessuna situazione, per quanto difficile, non possa dare l’opportunità di crescere pur restando bambini.