Giovedì 15 marzo si è concluso a Filmstudio’90 il trittico cinematografico organizzato dal circolo ARCI L’Albero di Antonia e curato da Isa Luoni con il tema “Creatività, identità e follia femminili nel racconto cinematografico”. A disposizione di chi vuole approfondire le motivazioni tematiche del ciclo di incontri la curatrice pubblica una introduzione generale e le tre schede critiche dei film.
Introduzione
Ci ricolleghiamo idealmente, con questo nuovo ciclo di film, alla carrellata dei ritratti di donne del precedente ciclo su Truffaut; in quella sede avevamo condensato la concezione truffautiana del mondo femminile nel motto “Le donne sono magiche”: infatti, nel suo cinema, rappresentano l’avventura, l’oggetto del desiderio e comunque restano un enigma.
In questo enigma tentiamo di addentrarci, nei nostri nuovi incontri, attraverso la dimensione della creatività nei tre ritratti di donne- Séraphine, Janet, Sabine – che sono attraversate da un demone, da un fuoco creativo. E tra loro, nonostante la forte diversità storica e ambientale – la Francia d’inizio ‘900, la Nuova Zelanda dagli anni ’30 in poi, la Zurigo dei primi del ‘900 agli albori del movimento psicoanalitico – si possono cogliere sottili e profonde affinità elettive.
- Sono tutte e tre donne anomale, fuori dalle convenzioni, e la loro diversità è connotata da uno strano, inquietante blocco comunicativo e da un rapporto spinoso, difficoltoso e di emarginazione con la realtà che le circonda.
- Vivono tutte e tre un’esistenza tragica e segnata dal dolore in modo bruciante, anche se sanno trarre dallo stesso dolore la loro fonte ispiratrice primaria, riscattandolo in vario modo.
- La comune esperienza di profondo dolore assume in tutte e tre la connotazione della follia: non solo in modo esplicito, clinico, come per S. Spielrein, primo caso clinico yunghiano curato col metodo che proprio in quegli anni Freud stava mettendo a punto, ma anche nel destino che toccò a Séraphine de Senlis, pittrice semisconosciuta della prima metà del ‘900 e che, da umile domestica, divenne pittrice molto apprezzata per concludere poi la sua esistenza in una inarrestabile caduta verso la stessa follia. Infine, anche il “caso letterario” Janet Frame viene valutato dalla Campion (la regista del film) come quello di una scrittrice cui “appartiene solo il talento, non la diagnosi di schizofrenia che la società volle imporle solo perché diversa dalla norma” ( J.Campion).
- Esse sono inoltre segnate da una persistente, oltremodo ardua, volontaria o coatta, esperienza di solitudine ed emarginazione: il mondo interiore di queste donne è radicalmente solitario e fortemente angoscioso. Se questo tratto rappresenta, kleinianamente, una sorta di destino inevitabile per ogni esistenza, esso può al contempo rappresentare – e così è stato per le nostre protagoniste – una preziosa opportunità poiché, attraverso l’espressività e l’intelligenza creativa, hanno conquistato una superiore consapevolezza e serenità.
- La follia, dunque, che da sempre, nella letteratura, e di conseguenza nel cinema, rappresenta una potenza drammatica originaria, un motore archetipico della stessa narrazione, anche cinematografica. In questi tre casi da una forma di dissociazione dell’io, leggibile forse più correttamente come angoscia depressiva e impotente di fronte all’insensibilità altrui, Séraphine si salva con la pratica del dipingere, Janet si salva con la scrittura, luogo unico di ricomposizione della propria identità segreta: infine Sabine si salva con la guarigione (attraverso la terapia psicoanalitica) e, successivamente, con l’opera educativa dell’Asilo Bianco di Mosca nonché con l’instancabile divulgazione del metodo freudiano/yunghiano. Tutte e tre, tra l’altro, sanno far venire alla luce dimensioni del profondo inconscio che attraverso la loro opera “parla” e ci parla.
- Emergono dai testi cinematografici tre veri emblemi di figure femminili, a loro modo “eroiche”, capaci di manifestare una indomita volontà di vivere, di far vincere la vita sulla disperazione e sulla morte con il recupero delle proprie profonde radici, in senso psichico/affettivo ma anche come rapporto con la propria terra. Appaiono come immagini di quel regno delle Dee che, yunghianamente, incarna i differenti volti dell’universo femminile stesso.
- Per questo esse rappresentano una vera espressione del “genio” femminile così come lo evidenzia la Kristeva nelle sue splendide monografie (su Melanie Klein, Colette, Hannah Arendt). Il genio delle donne, secondo la psicoanalista e scrittrice Kristeva, non si avvicina all’eccezionalità dei grandi uomini ma piuttosto si configura come “rifiuto a lasciarsi ridurre al rango di prodotti o di apparenze” .
Il genio femminile sta nella soggettività e nella capacità di trovare strade originali e autonome in un mondo che non le prevedeva. Questa particolare genialità, che caratterizza ogni vita dotata di senso, ha portato le tre donne della nostra trilogia filmica lungo processi esistenziali complessi e plurali, come sono quelli di ogni individualità
( anche al di là delle caratteristiche di “genere”).
Analogamente, tutte le altre donne che desiderano vivere in modo autentico nel mondo, possono trovare i loro percorsi altrettanto originali rinunciando “a paludarsi nel mondo maschile della verità”, quello che vanifica l’azione femminile perché l’uomo spesso è portato a riconoscere la donna solo quando gli appare come il fondamento di se stesso, garantendo il piano dei valori che egli istituisce.
- Il recupero della originalità e creatività femminile consente di inverare la stagione del femminismo storico, che potremmo suddividere in tre fasi: il suffragismo degli anni ruggenti del suo esordio sociale, la lotta per la “parità” come riconoscimento del “secondo sesso” (alla Simone De Beauvoir), e la terza, ultima fase attuale, caratterizzata dal “contributo delle donne alla pluralità del mondo” ( J. Kristeva).
Oggi, nella temperie che abitiamo, la singolarità e la libertà, il “chi” femminile, è costituito da una feconda osmosi di vita, pensiero critico, corpo, scrittura/espressività artistica, eros/passione che si compenetrano in una unità costante, capace di manifestarsi in tutta la sua pienezza.
- Infine, le tre donne di cui ci occupiamo incarnano il destino dell’Anima – per questo, preparando i nostri incontri, ne ho ritrovato il filo conduttore in una mirabile poesia di Alda Merini:
da “L’anima innamorata” (2000)
“Non c’è un esempio valido per l’anima
che non sia grato agli dei
e che non voli oltre ogni causa possibile.
Se un’anima è franca,
se ha conosciuto il valore del peso e della morte,
conosce le ragioni della vita
e sa che sono amare ma salutari.
Ciò che vale, nell’anima è la nudità…
L’anima ha la semplicità dell’acqua
Ed è la prima natura dell’uomo.
Naturalmente teso verso questo embrione di rinascita
ogni uomo cercherà nell’anima
un tempo che non potrà incontrare
se non dopo la morte,
che è l’unica occasione
per diventare nuovamente ANIMA.”
SERAPHINE
di Martin Provost – Francia/Belgio/Germania 2008, 125′
con Yolande Moreau, Ulrich Tukur, Anne Bennent
1) Progetto di regia
Il film esce nelle sale nell’ottobre 2010: un successo in Francia, dove vince ben sette Cèsar ottenendo una grande affluenza di pubblico. Martin Provost, il regista, aveva ritrovato un articolo così intitolato: “Grande collezionista scopre pittrice”. Egli è interessato da questo speciale incontro intellettuale e spirituale tra il mercante illuminato – si tratta di Wilhelm Uhde – e un’ artista ispirata. Un’ispirazione che assume un timbro mistico (nel film è addirittura avanzato il paragone tra Séraphine e Teresa d’Avila).
Così il regista riassume il suo personale rapporto con Sérafine de Senlis: “Io stesso dipingevo molto una volta, senza aver seguito nessun particolare corso, e ricordo che un giorno, dopo ore di concentrazione e di duro lavoro, sono stata colto da una paura irrazionale e da un senso di immensa solitudine. Non ho più toccato un pennello da allora. Quello che mi ha attratto in Séraphine, anche se suona sciocco a dirsi, è stata una sorta di vicinanza spirituale, ma anche l’ammirazione mista ad una forma di curiosità che ho sempre provato per tutto ciò che nasce dalla pura creatività, dal fuoco creativo.”
Séraphine de Senlis, pittrice semisconosciuta della prima metà del ‘900: visse un’esistenza tragica ma trovò nel dolore la sua fonte ispiratrice. Purtroppo buona parte delle sue opere fu distrutta durante la seconda guerra mondiale. Il regista ne ha approfondito l’incontro attraverso lo studio del saggio sulla sua vita della psicoanalista Françoise Cloarec (cui fanno anche riferimento le note sulla vita dell’artista qui di seguito). Ancora, per il regista è stato decisivo l’incontro con Jolande Moreau (la protagonista del film), attrice belga nota al cinema per “Senza tetto né legge” (1985) e per il più recente “Louis Michel”. Senza di lei il film non sarebbe stato girato in quanto nessuno, al di fuori dell’attrice, avrebbe potuto interpretare Séraphine: “Jolande non recita, incarna Séraphine” – dichiara Provost.
I quadri della pittrice sono originali per la primitività con la quale vengono creati, attraverso un lavoro che faceva inginocchiata sul pavimento, usando colori non convenzionali che impastava artigianalmente con elementi naturali stesi sulla tela anche con le dita.
Wilhem Uhde (Ulrich Tukur), noto collezionista d’arte, nel 1913 scoprì il talento nascosto della donna, che era la sua governante, addetta ai lavori domestici più umili, e lo incentivò in tutti i modi non riuscendo a fermare però la sua inarrestabile caduta verso la follia, che la porterà a terminare i suoi giorni in manicomio.
Il film racconta l’incontro tra Séraphine e Wilhem Uhde, uomo tormentato con cui Séraphine intreccia una particolare relazione affettiva, oltre che di collaborazione artistica.
Il regista, più che descrivere una biografia della pittrice in senso canonico, sa focalizzare (e questo è il pregio della pellicola) il motore mistico e/o artistico che la spingeva a realizzare le sue “visionarie” composizioni floreali. La regia risulta rigorosa e sobria, con pochi movimenti di macchina Provost tratteggia la personalità di una donna a suo modo libera, capace, attraverso la solitudine, l’umiltà dei lavori che eseguiva, la prostrazione fisica e psichica, di illuminare il suo mondo interiore saldamente ancorato ad una fede religiosa che non si spense mai.
La fotografia si dispiega nelle tonalità del verde, del blu e del nero, restituendoci l’impenetrabilità del personaggio Séraphine la cui anima si proietta nell’opera di pittura in cui i colori sono, al contrario, caldi, accesi, intensi.
Impressionante e riuscitissima l’interpretazione della Moreau totalmente immersa nel personaggio, giustamente considerata in Francia come l’attrice del momento e premiata con il César per questa magnifica prova attoriale, in cui emerge la natura autentica e il talento “folle” dell’artista.
Se un limite si può trovare nella regia di Provost è che, a tratti, risulta un po’ troppo formale: la sua raffinatezza stona forse con la “primitività” di Séraphine, da cui lo spettatore non può non sentirsi coinvolto e richiamato, tanti aspetti inconsci sa portare alla luce.
2) Il favoloso mondo interiore di Séraphine. Tratti di una biografia
a) Lavori neri, lavori colorati
“Séraphine, devi metterti a disegnare!”– “Tutto è cominciato con un ordine. Imperioso. Della Vergine Maria o di un angelo, la versione varia.” (F. Cloarec, “Séraphine”, Archinto)
Così comincia la intrigante e acuta biografia della Cloarec sulla pittrice di Senlis.
Séraphine ha 42 anni quando si impone di ubbidire all’ordine che “scende dal cielo”. Deve rispondere alla vocazione in cui crede, ha la sensazione di trovarsi in accordo con l’Altro più grande di lei. La voce interiore è diventata reale. La Vergine tanto amata e sacra le parla. Da tempo vive un trasporto verso la pittura e seguire la voce diviene una necessità, forse per non precipitare in un “altrove” inquietante, per non rompere il rapporto con gli altri, la realtà con cui da sempre intrattiene una relazione spinosa e difficoltosa.
Era nata il 3 settembre 1864, ad Arsy, e già rimane orfana a soli 7 anni continuando la vita da qui in poi con la sorella; da subito manifesta un temperamento solitario (nessuna amica, nessuna madre – neanche adottiva – nessun innamorato, tranne uno, un ufficiale spagnolo, frutto della sua immaginazione; mai uno sguardo benevolo o amoroso si posa su di lei).
E’ molto devota, una cristiana praticante; frequenta la chiesa di Arsy partecipando alla messa del mattino presto, quella delle serve; sì, perché da quando compie 13 anni, per vivere, va a lavorare in casa d’altri come domestica tutto fare, cameriera, aiuto cuoca. Di questo periodo dirà: “Faccio i miei lavori neri”, intendendoli contrapporre a quelli “colorati” delle sue tele sgargianti. Si segnala la sua presenza come donna di servizio presso il convento delle suore della Charité de la Providence a Clermont (secondo quanto ci dice Bellanger, storico locale). E qui inizia una vita conventuale esemplare, senza pronunciare i voti, ma partecipando assiduamente con le religiose alle meditazioni e alle preghiere, come una conversa. Così si impregna dell’atmosfera creata dagli inni e dai canti, dal silenzio meditativo, dal profumo d’incenso.
In convento trascorre ben vent’ anni, che la segnano nel profondo, nel raccoglimento, nella mitezza e nelle pratiche devozionali: vent’anni a servire, vent’anni fuori dal mondo.
Séraphine deve a questo lungo periodo della sua esistenza la forte inclinazione al misticismo, la sua cultura religiosa che si esprime nello stile della scrittura e, successivamente, del disegno: angeli e fiori alimentano i suoi pensieri. Per questo le sue tele non raccontano storie, tendono a farci vedere l’inedito, l’invisibile. Del resto un destino particolare e “spirituale” è già racchiuso nel suo nome (non si sa perché i genitori glielo abbiano dato). Il nome rimanda agli angeli ardenti, i più vicini alla presenza divina. I serafini (cfr Isaia, cap. 6) sono esseri ibridi e alati che hanno caratteristiche umane e animali.
Descritti nella letteratura ebraica, cristiana e islamica, servono a trasportare o a proteggere il trono divino, di cui sono i guardiani celesti. Essi occupano una posizione molto elevata in quanto intermediari tra Dio e gli uomini; esseri “demonici”, come l’Eros platonico, servono Dio ma intercedono per gli uomini presso di Lui. Questi spiriti celesti sono dediti a cantare le lodi di Dio e a purificare coloro che una vita peccaminosa ha reso impuri e meritevoli della punizione divina.
Eppure questa donna devota, solitaria, sottomessa alle regole della vita conventuale, quasi improvvisamente, a 38 anni, abbandona la vita claustrale e la sua sicurezza protettiva, forse per un violento bisogno di indipendenza – siamo nel 1902 – e Séraphine accetta anche lavori duri per poter sopravvivere: è educata, allegra, sicura di sé, rispettosa.
E dal 1905, su comando della Vergine, mentre si trova nella cattedrale di Senlis, un luogo antico, di stile gotico, imponente, come è “vecchia Francia” tutto l’aspetto della storica cittadina, Séraphine inizia la sua straordinaria avventura pittorica.
Ormai ha messo su casa a Senlis, coi suoi mobili: abita in un’unica stanza che utilizza come atelier e a cui si arriva mediante una scala a chiocciola, buia e stretta. Anche la stanza, arredata con povere cose di uso quotidiano, non è più luminosa del vano delle scale. Una statuetta in gesso della Madonna campeggia, a testimoniare che Dio e i santi sostengono il suo lavoro. Ai suoi piedi un lumino ad olio arde in continuazione, indispensabile per alimentare sia l’ispirazione artistica che la fede. Reinventa la pittura con lo smalto, cui resterà fedele aggiungendo in seguito vernici fluide: miscuglio sconosciuto di cui Séraphine, che non sarà mai allieva di altri, conserverà gelosamente il segreto.
Nella sua camera-atelier, Séraphine non smette di dipingere di notte, cessati i suoi lavori “neri”, mescolando inni, esaltazioni, paure e tristezze. Séraphine trasforma in fiori le sue paure, i desideri profondi, le ferite. Non è permesso disturbarla, ha affisso per questo un cartello in fondo alla scala: “Proibito salire, i trasgressori saranno puniti a norma di legge, sto lavorando”.
Le cose che ama sono ritratte con grande semplicità e non interrompe la vita spirituale sperimentata in convento: si reca all’antica cattedrale, vicina alla sua abitazione, e invoca la Vergine con commozione: “Madre mia che sei nei cieli”.
Ormai è divenuta un personaggio a Senlis anche per il suo bizzarro modo di presentarsi: si veste di nero, inciampando quasi nelle lunghe gonne che indossa una sull’altra, spazzando la strada su cui cammina e sui capelli rossicci incornicia il viso con un cappello di paglia verniciata, anch’essa nero. Spesso tace per molti giorni: chi la conosce sa che è in stato di ispirazione, in conversazione intima e privata con le voci che le provengono dall’alto … e il suo aspetto fisico è corpulento, col viso lentigginoso, come si addice ad una contadina robusta come lei.
Vive altrove, in un mondo tutto suo; vive totalmente e liberamente la sua passione per la pittura, senza compromessi. Più prosegue la sua attività, più grandi si fanno i suoi quadri. Al riparo da ogni sguardo, dipinge cantando, anzi gridando inni religiosi che mettono in scena l’amore, umano e divino, con cui si sente in comunione, riconciliandosi con se stessa. Voce e gesto pittorico sono una cosa sola; il quadro diviene una preghiera dipinta.
Tutte le sue opere sono ispirate, Séraphine si sente strumento vivo di Dio. E il canto d’amore si allarga anche all’innamorato immaginario (prima un ufficiale spagnolo poi trasformatosi in un russo collezionista di quadri) che le ha promesso di sposarla: e lei lo aspetta e i suoi pensieri volano verso di lui. Ma Séraphine è vergine e tale resterà; l’amore lo fa e lo farà sempre solo con la pittura: a volte si crede incinta ma, forse, per il desiderio di partorire la propria opera di pittrice.
Una volta, in onore di Santa Teresa del Bambin Gesù, trasforma il suo studio in una camera ardente stracolma di rose benedette e profumanti l’aria, appese a lunghe cordicelle: come Santa Teresa ha creato il linguaggio dei fiori, dell’ amour fou, così Séraphine sparge sulla tela fiori offerti all’invisibile.
E una volta, dopo essersi inginocchiata davanti alla statua di gesso bianco della Madonna in cattedrale, in seguito ad una notte passata lì in preghiera, lascia la statua, il mattino seguente, dipinta di rosa.
b) L’incontro con Wilhem Uhde
Nel 1912 quest’uomo, colto, nobile , tedesco, innamorato della città medioevale di Senlis presso cui risiede, grande e noto collezionista di quadri, entra nella vita di Séraphine e la sconvolge. Tutto li divide: l’origine sociale, la cultura (Uhde è pacifista e antimperialista in esilio), il modo di vivere: eppure Senlis e l’amore per la pittura uniranno indissolubilmente il loro destino.
Uhde scopre e compra tele di Picasso, considera George Braque il maggior pittore del secolo, conosce Rousseau il Doganiere e Gertrude Stein, si batte con fervore, sfidando molti pregiudizi, per i pittori che stima: qui si colloca la sua inclinazione per Séraphine e i pittori che definisce “primitivi moderni” nel mentre contribuisce fortemente a far conoscere il fauvismo, il cubismo, l’arte naїf – cui anche Séraphine, in qualche forma, appartiene.
Il primo incontro con Séraphine avviene un giorno, casualmente, in una casa di Senlis dove il collezionista vede una sua natura morta che suscita in lui un’impressione così forte da lasciarlo muto ed emozionato; si tratta di alcune mele posate semplicemente su un tavolo, modellate con una bella pastosità degna di Cézanne. Da quel giorno Séraphine gliene mostrerà altre e così non sarà più sola: qualcuno finalmente capisce la sua pittura e nasce un vero rapporto di mecenatismo di Uhde verso la pittrice.
Le tele di Séraphine non presentano ancora i tratti splendenti, fiammeggianti che assumeranno in seguito. Ma per Uhde già da subito rivelano “una passione senza uguale, un fervore sacro, un ardore medioevale incarnati in quelle nature morte”.
Durante la guerra Uhde parte e Séraphine, lasciata sola quasi in miseria, quasi fosse un intermezzo rispetto ai suoi temi floreali, dipinge scene con allegorie patriottiche, ornate di bandiere.
Séraphine continua imperterrita a dipingere senza sosta, ormai da vent’ anni circa: colpisce, nella piena maturità della sua arte, il colore. Sempre più si immerge nella materia ascoltando il proprio universo immaginario, lasciando emergere l’abbondanza dei pigmenti. In uno spazio delimitato, spinta da un’immensa forza interiore, inscrive in esso forme che evocano il piacere, la morte, la psicosi.
Dipingere la protegge dall’abisso. I quadri rappresentano il tentativo di dare risposta a interrogazioni interiori; in essi Séraphine cerca di raccogliere brani del suo “io” tormentato. Infatti, quando mostra i suoi quadri agli amici, ai vicini, confida loro che a volte è spaventata da quel che ha dipinto: il suo disordine interiore si è trasformato in arte. I nomi magnifici che attribuisce alle sue tele, oggetto di tanta cura, saranno quelli designati in seguito da Uhde e sua sorella, collaboratrice del collezionista: “L’albero del paradiso”, “Fiori del paradiso” ecc.
La sua anima si trasferisce sulla tela sotto le vesti di fiori, petali fiammeggianti e si consuma in un dialogo sempre più solitario con Dio, gli Angeli, la Vergine. Nessuna figura umana appare nei suoi dipinti. Nessun modello umano da rappresentare, solo fiori, foglie e piume, piume che richiamano figure di uccelli del paradiso. Ogni elemento naturale si offre in una materia calda, sensuale, fluida. Le forme sono sempre più elaborate e raffinate, i colori trionfanti. E le tele si ingrandiscono: questa donna, ormai anziana, maneggia da sola tele enormi, pesanti. Quando veniva interrogata sulla tecnica da lei adottata rispondeva: “Mi rendo conto che la mia mano non c’entra per niente, obbedisce soltanto, esegue quel che le vien detto di fare, io sono solo uno strumento.”
Si ignorano le sue formule, le modalità di composizione delle sue tele: la sua tavolozza è figlia di una alchimia segreta. Sui suoi quadri dichiara: “Amo i colori, la luce. Amo gli alberi, le foglie, i frutti, i fiori e gli uccelli. Amo soprattutto il piumaggio dei fagiani, dei pavoni e delle faraone.”
I suoi quadri sono freschi come se fossero stati appena dipinti; si direbbe che non sono ancora asciutti. Un tocco particolare non ci è però sconosciuto: l’olio santo, che arde nella cappella consacrata alla Vergine, sottratto discretamente nella cattedrale quando è sola e che viene aggiunto ai suoi sapienti intrugli. Per Séraphine è una sorta di contributo benevolo dello Spirito Santo che dà forza e spiritualità alla sua pittura, tanto è indispensabile per tutti i sacramenti cattolici.
Dopo lo scoppio della guerra Séraphine si è appartata dal mondo, si è votata ad un “Altrove” che la fa vivere. Esce allo scoperto con la prima esposizione dei suoi quadri: si tratta della mostra del municipio di Senlis, è l’ottobre 1927, vi porta tre grandi tele che campeggiano nella sala principale dell’edificio. Una raffigura un ciliegio, la seconda un mazzo di lillà su fondo nero, la terza due ceppi di vite. E gli amatori d’arte parigini si entusiasmano di fronte a queste tele, celebrano la scoperta favolosa di una nuova arte paragonata a quella medioevale, e/o persiana e dell’Estremo Oriente.
Uhde torna in Francia, nel ’24, accompagnato da un giovane pittore tedesco, suo compagno: compra i quadri di Séraphine, mettendola sotto contratto e strappandola ai suoi “lavori neri” con vera generosità di finanziamenti. E Séraphine, tra il 1927 e il 1930, lavora senza tregua.
Risale a questo periodo l’unica foto che le viene scattata davanti alle sue tele dalla sorella di Uhde, Anne-Marie. Si mette in posa con gli occhi rivolti al soffitto ed esclama: “Devo sollevare la fronte, la mia ispirazione viene dall’alto.” (cit. da W. Uhde)
c) Dai fiori al delirio
E’ il momento più fervido: Séraphine dipinge dalle tre alle quattro tele a settimana.
Sono riconosciute tra le più belle: “L’albero del paradiso”, “I fiori del paradiso”, “Il ciliegio dietro uno steccato”, “L’albero colpito dal fulmine”.
Alla fine degli anni ’20 si decreta il suo grande successo, i suoi quadri vengono acquistati dai più noti collezionisti d’arte, si parla di lei perfino negli USA. La celebrità accentua le sue stravaganze: diviene sempre più lunatica, eccentrica, sospettosa. Appare sempre più immersa in un altro mondo, incurante di questo. Si logora, si sfinisce, beve troppo.
Uhde smette di finanziarla a causa delle proprie difficoltà economiche ma anche per le intemperanze nonché le spese eccessive fatte da Séraphine. Ma gli abitanti e i conoscenti di Senlis vedono che Séraphine sta peggiorando, scivolando verso il vuoto, la follia, la sragione. Si approfondisce il solco tra sé e gli altri; i bambini, per strada, le tirano le pietre.
Dipinge sempre meno all’ombra di una follia sempre più vicina. E’ perseguitata da angosce e demoni, non riconosce più tempi e luoghi.
Incupita dal peso delle sue “voci”, vecchia e curva, la si incontra in città mentre penosamente girovaga senza meta. L’agitazione cresce, risponde con violenza ai vicini, impedisce loro di dormire e batte alle porte per annunciare la fine del mondo.
“Ho come un male dentro che mi rode il ventre”… e potremmo continuare, ma ormai non è più in grado di ordinare il suo caos interiore in forma di fiori.
Nel febbraio 1932 lascia Senlis per Clermont de l’Oise, luogo dove si trova il manicomio in cui resterà fino alla morte. La diagnosi che sancisce la sua patologia mentale così decreta: “Disturbi mentali caratterizzati da pensieri deliranti sistematizzati di persecuzione”.
In manicomio non dice nulla, non vede nulla: rinchiusa in un mondo di ombre e di incubi aspetta solo la morte, che verrà, dopo ben dieci anni di internamento – con Uhde che invano cerca di occuparsi di lei e viene però allontanato dai medici che temono l’aggravarsi della malattia – l’11 dicembre 1942, a 78 anni.
Nel 1945 Uhde organizza a Parigi, alla Galerie de France, un’esposizione esclusivamente dedicata a Sérafine Louis, detta Séraphine de Senlis, poco prima della sua stessa morte, avvenuta nell’agosto 1947 (cinque anni dopo Séraphine), a 72 anni. Non è mai riuscito ad ottenere la tanto agognata cittadinanza francese ma viene sepolto a Montparnasse, il quartiere che tanto amava.
Non possiamo evitare di constatare quanto scarto vi sia tra la miseria in cui Séraphine è sprofondata, soprattutto gli ultimi anni in manicomio, e il grande valore artistico oggi riconosciuto ai suoi quadri; troppo stridente il contrasto tra i suoi fiori così luccicanti e la sua fine così straziante.
Come ci suggerisce Violette Leduc (V. Leduc, “Séraphine de Senlis”):
“Séraphine de Senlis… ha dipinto fiori senza nome, senza famiglia, senza vaso, senza giardino. I fiori dell’erotismo magnificamente ispirato, sfrenato, incontrollato, magnificamente modulato, cantato fino al delirio.
Irradiazioni sessuali, i suoi blu, i suoi rossi, Séraphine de Senlis ha coniugato il desiderio e il piacere in fiore dipingendo mazzi irresistibilmente misteriosi.”
Dopo aver percorso i tratti salienti di questa straordinaria, anomala vicenda esistenziale ci si domanda quanto la follia, che la trascinò ad una fine così tragica, possa aver intersecato la sua opera di pittura. Cosa c’entra la follia con le sue tele? In quale modo il caos che abitava la sua psiche profonda ha partecipato della bellezza, della intensa armonia che i suoi quadri sprigionano? Sono interrogativi tormentosi e forse senza una possibile risposta. Per Séraphine la pittura è stata terapeutica? Ha in qualche forma ritardato un delirio grave presente allo stato latente?
Dobbiamo constatare che, finché Séraphine produce le sue opere, la sua condizione psichica appare stabile. In un primo tempo dipinge senza alcun riconoscimento, poi, con Uhde, la situazione cambia. Dal momento in cui Séraphine conosce il successo e, attraverso l’intervento del collezionista, comincia a guadagnare, diviene sempre più strana e bizzarra. Ottenere una consacrazione ufficiale è come “insopportabile”: in quel momento si direbbe che il suo delirio si scontra con la realtà in modo esplosivo. Un delirio costruito dal malato mentale solitamente è riparatore, un atto di autoterapia, in certa misura.
Le opere d’arte sono da considerarsi non come semplici proiezioni dei conflitti dell’artista ma anche come un indicatore di una loro possibile risoluzione, assumendo un ruolo quasi auto-terapeutico. Così il fantasmagorico gioco di colori che Séraphine crea rappresenta la volontà, se pur inconscia, di tenere insieme i pezzi della sua persona e quasi un conforto per la sua profonda infelicità. Quando si blocca la produzione artistica, la follia la invade.
Il sostegno importantissimo di Uhde le ha permesso di resistere: è al meglio della sua vita psichica quando esegue il suo ruolo di domestica e al contempo quello di pittrice riconosciuta … ma quando, per le varie vicissitudini della vita di Uhde, Séraphine non è più aiutata da lui e crolla il suo stato di pittrice famosa, tutto si disintegra. Non c’è una spiegazione psicoanalitica adeguata della relazione tra arte e follia in Séraphine: possiamo porci, per lei, le domande che interrogano la creazione artistica, il genio, la follia, il talento.
Importante avvicinarci alle tele dipinte di Séraphine lasciandoci avvolgere da ciò che vediamo, sentiamo, “assecondandole” e cedendo al respiro che da esse emana.
APPENDICE
Come si può definire l’arte di Séraphine de Senlis?
Come classificare l’opera di Séraphine? “Art brut”, arte singolare, arte primitiva, arte naїf, “pittrice del cuore sacro” (Uhde), arte popolare, arte marginale, arte irregolare, arte fuori norma, creazione libera, primitiva del XX secolo ecc. In verità, i termini usati più spesso in riferimento a Séraphine sono arte naїf e “art brut”. Ciò è forse contestabile perché i quadri naif sono immediatamente decifrabili – e le tele di Séraphine non sono sempre trasparenti ad un primo sguardo – e l’ambiguità del termine “brut”, cioè grezzo è dovuto al fatto che viene associato, solitamente, all’arte psicopatologica (ma la funzione e la produzione artistica è la stessa in ogni caso, sia che venga prodotta da un “sano di mente” che da un “malato”). Ancora, per il critico d’arte Bernard Dorival vale l’espressione “istinto del cuore” e per Jean Casson “pittrice istintiva”: “Poetessa della realtà rustica, Séraphine è anche poetessa della rigogliosa realtà cosmica. Ha vissuto sempre negli stessi luoghi una vita la più ritirata possibile, una vita sostanzialmente provinciale, ma questa vita così modesta è animata, quasi per magia, da un’energia che la rende uguale alla vita universale nella sua più esuberante estensione. Questo è un miracolo grande e bello.” (Jean Casson, “Catalogo dell’esposizione Séraphine de Senlis”, 1972)
Séraphine, tra l’altro, non si è mai confrontata con quel che succedeva nel campo artistico a lei contemporaneo: nel suo tempo di vita si affermano pittori famosi come Picasso, Braque, Matisse e altri. Nessuna etichetta, per tutte queste ragioni, soddisfa la definizione di un’opera che elude denominazioni e correnti. Unica nel suo genere, la sua opera ha un posto a parte nella storia dell’arte, ci troviamo di fronte a qualcosa di originale e distante rispetto ad un’arte accademica.
Séraphine ha portato con sé i suoi segreti di pittrice. Quando un ammiratore si estasiava della bellezza dei suoi quadri e le chiedeva come raggiungeva questo risultato, rispondeva:
“Ho la mia maniera…” Lontana da ogni accademismo e da ogni convenzione, Séraphine non impara una tecnica, la inventa. Dipingere è il suo modo di esistere. Spinta da questo irresistibile “demone” può fare a meno di tutto il resto; l’importante è realizzare il sogno di dipingere. Guardando i suoi quadri si avverte l’eco di un universo insolito, di una ricchezza lussureggiante e anche di uno sguardo innocente e “nuovo” attraverso cui scoprire il mondo.
“Grazie alla sua semplicità d’animo non ha posto domande al mondo e neanche il mondo gliene ha poste. Ha segretamente comunicato con le potenze primitive. Ha dipinto e così viene annoverata tra ‘gli immortali’ che oltrepassano i confini di un movimento o di una scuola.
Nella sua stagione ha dato i frutti del suo mistero doloroso e glorioso. Séraphine di Senlis ci consegna incessantemente una ragione per sperare, con i suoi oracoli e secondo il desiderio appassionato di Van Gogh, l’avvento di un’età dell’oro della pittura: ‘Nel futuro c’è un’arte e deve essere giovane e bella’.” (J.-P. Foucher, “Séraphine de Senlis”)
UN ANGELO ALLA MIA TAVOLA
di Jane Campion – Nuova Zelanda 1990, 158′
con Kerry Fox, Alexia Keogh, Karen Fergusson
1) Progetto di regia
“Janet Frame sarà il mio prossimo film. Sarà il ritratto di una scrittrice neozelandese che ha scritto diversi volumi autobiografici, tutti incentrati su cosa significhi crescere e creare.
Amo lo stile della sua trilogia autobiografica: l’ “Isola del presente” (“To the Is-Land”) ha a che fare con la sua infanzia: è ricco di freschezza ed è il più seducente dei tre.
“Un angelo alla mia tavola” (“An Angel at my table”) e “La città degli specchi” (“The Envoy from Mirror City”) contengono invece momenti che si svolgono in Europa. Per questo motivo ho appena compiuto diversi viaggi nel vostro continente, per cercare le location adeguate. Lo girerò per la TV, in tre parti di un’ora ciascuna, con la possibilità di realizzarne anche una versione cinematografica.” (intervista a “Positif” del genn. 1990)
La figura di Janet Frame, in Nuova Zelanda, è avvolta da un’aura quasi leggendaria, anche per la sua drammatica esistenza che la pone idealmente, nella fantasia popolare, a fianco di altri grandi artisti segnati dal binomio arte/follia. Il prof. Forrest, nel corso del film, a un certo punto esclama: “Janet, quando penso a lei penso a Van Gogh, Hugo, Woolf: tanti sono gli artisti che hanno sofferto di schizofrenia!”
L’opera della scrittrice, iniziata con una raccolta di racconti (La laguna, 1951), prosegue con romanzi, come Dentro il muro (1963), diario sull’esperienza in manicomio, fino all’autobiografia (1989), considerata il suo capolavoro letterario.
E’ stato detto che la Campion: “Sembra voler spezzare una volta per tutte il classico binomio di genio e follia, come in ‘Lezione di piano’ farà con la coppia Eros/Thanatos. A Janet Frame appartiene solo il talento, non la diagnosi di schizofrenia che la società vuole imporle perché diversa dalla norma”. (P. Mereghetti, “Dizionario dei film 2000”, Baldini e Castoldi)
Ed è la stessa Campion ad ammettere che il personaggio di Janet Frame assume per lei proporzioni quasi leggendarie e che la sua vita racchiude in sé lo stereotipo dell’artista tragico e triste.
Il film nasce come fiction televisiva, in tre parti (come i tre volumi che costituiscono l’autobiografia-fiume della Frame). Solo in un successivo momento è stata preparata una versione cinematografica per la quale sono stati necessari dei tagli (per un tot di circa 50 min., soprattutto relativi a scene d’infanzia e al rapporto tra Janet e il padre) oltre ad altri accorgimenti tecnici (il film era stato girato in 16 mm e lo si è dovuto “gonfiare” in 35 per permetterne l’uscita nelle sale). Prima di iniziare le riprese la Campion volle l’approvazione della stessa Frame, che visitò più volte il set. La produzione del film, inoltre, fu complessa: 140 persone nel cast, 100 set diversi, circa 12 settimane di riprese.
Comunque, a detta di molti, la mossa vincente della Campion sta nel casting delle tre Janet. Non solo per l’incredibile rassomiglianza fisica tra loro e, soprattutto, con la trama, ma perché la regista è riuscita a dare una continuità di presenza, di personalità, di atteggiamento alle tre interpreti, infondendo in tutte una continuità di elementi quasi inconsci.
Il film è girato in larga parte nella natia Nuova Zelanda, come il film successivo “Lezioni di piano”, anche se con uno scenario urbano e rurale ben distante dal selvaggio e arcaico bush di quest’ultimo.
Il fotografo, Stuart Dryburgh, lo stesso dei film successivi (“Lezioni di piano” e “Ritratto di signora”) si serve di una speciale pellicola Kodak per rendere intensi e contrastanti i due colori chiave del film, il rosso (come i capelli di Janet) e il verde (del paesaggio neozelandese).
Il film vinse il Gran Premio speciale della Giuria al Festival di Venezia del 1990, con varie contestazioni di pubblico che decretò per la Campion il merito del Leone d’Oro (andato invece a “Rosencrantz e Guildestern sono morti” di Stoppard).
Dall’autobiografia al film
Parte prima: “Nella tua terra”
“Dalla prima regione di liquida oscurità, nella seconda regione di aria e di luce, ho redatto le seguenti note con il loro misto di fatti e di verità e memorie di verità con lo sguardo sempre fisso alla terza Regione, dove il punto di partenza è il mito”. (J. Frame, “Un Angelo alla mia tavola”, Einaudi, 1999)
Così, in modo icastico e potente, si apre l’autobiografia della Frame. Siamo in Nuova Zelanda, negli anni ’30.
Il film inizia con brevi frammenti che si rinchiudono subito in nero, come palpebre che sbattono. Sono i primi ricordi di vita di Janet: un prato verdissimo e, in controluce, sullo sfondo di un cielo azzurro, si staglia la figura della madre che la chiama a sé: “Vieni, vieni dalla mamma, brava tesoro”.
La prima parte del film scorre come le foto di un album “mentale”.
La prima inquadratura – la visione, da parte di un bambino, della silhouette della propria madre contro l’azzurro del cielo – colpisce lo spettatore come qualcosa che emerge dalle profondità dell’inconscio. La Campion ha dichiarato a questo proposito: “I primissimi ricordi non sono che dei flash, senza alcuna storia, solo pure immagini. Poi, crescendo, ti accorgi di ricordare piccole storie, che aumentano sempre più, finché riesci finalmente a guardare a tutta la tua vita come a un’unica lunga storia” (Lynden Barber, “Jane Campion; Interviews”).
Dopo le prime immagini di tocco impressionista, una vera e propria “premonizione”: la piccola Janet, sul treno, ferma a Seacliff, dove si trova il manicomio in cui sarà successivamente rinchiusa. Janet spia dal finestrino uno dei pazienti sulla panchina, col volto ferito da un grido di sofferenza, quasi soffocata.
Il film offre una forte alternanza di ombre e di luce, di potenza espressiva analoga a quella che ritroveremo in “Ritratto di Signora”: tanto bui gli interni quanto brillanti, colorati, luminosi gli esterni. Dice la Campion in “Interviews”, citato: “Ho sempre pensato al verde e al rosso come i colori per ‘Un angelo alla mia tavola’. Il verde della Nuova Zelanda e il rosso dei capelli di Janet. Sono colori primari… Se vai in Nuova Zelanda, ti rendi conto della differenza di luce…nell’Europa del Nord la luce è più soffice e diffusa. In Nuova Zelanda, poi, c’è sempre un forte vento che spazza via ogni cosa. L’aria è così trasparente che da Wellington puoi vedere chiaramente le montagne a 400 Km di distanza. Per questo motivo le ombre diventano così scure che si vede a stento. Questa intensità mi affascina e a volte i contrasti sono così forti che è difficile girare.”
Parte seconda: “Un angelo alla mia tavola”
Su uno sfondo nero appare un cartello, una citazione dalla “Tempesta” di Shakespeare che già preannuncia il motivo conduttore di questa sezione: la follia, quella follia falsamente diagnosticata a Janet e poi divenuta reale, a causa degli elettroshock e dei ricoveri in manicomio.
Oltre che dalla follia questa parte tratta dell’eros nella vita di Janet: l’emergenza del desiderio è per la timida Janet fonte di intensa frustrazione. Lo si percepisce da molti dettagli: da come affronta con disagio e pudicizia i discorsi legati al sesso, da come ascolta con bramosia i racconti della sorella Isabel, da come soffre nel vedere il suo (segretamente) amato Prof. Forrest rispondere ammiccante ai complimenti di due delle sue compagne di corso.
“Troppo timida per socializzare, ero sempre più sola, le mie uniche avventure erano la poesia e la letteratura.”
Janet inizia ad insegnare ma è un lavoro che stride con la sua eccessiva timidezza e basta un arrivo a sorpresa di un ispettore per gettarla nel panico. E citiamo questo momento perché la Campion trasforma l’episodio in una delle sequenze più potenti del film, interpretando con maestria le poche righe dell’autobiografia al riguardo: gli attimi dilatati all’infinito, il dettaglio del gessetto stretto in pugno, la fuga disperata lungo il corridoio e in mezzo agli alberi; l’intero mondo di Janet sembra collassare in un istante, senza ragione apparente.
Inizia una spirale che la trascinerà nei gironi infernali del manicomio.
L’amato Forrest legge un suo manoscritto e la mette in mano a due medici che pensano bene di rinchiuderla per breve tempo in un ospedale psichiatrico: Janet accetta perché si fida di chi si occupa di lei pensando lo faccia per il suo bene … e soprattutto perché il “caro” Forrest le ha promesso che verrà a trovarla.
E la discesa agli inferi, in questa parte del film, sicuramente la più drammatica ed “empatica” con la vicenda esistenziale della scrittrice da parte della Campion, inevitabilmente si conclude in quel manicomio di Seacliff che la bimba Janet aveva osservato dal treno. Già l’arrivo al manicomio presenta aspetti inquietanti: la macchina da presa si fissa su una Janet al centro dell’automobile tra due malate mentali che recitano una cantilena ossessiva.
Poco dopo Janet torna a casa con un referto medico che suona come una condanna inappellabile: “schizofrenia”. L’angoscia di Janet è aggravata dal nuovo lutto della morte della sorella Isabel per annegamento (dopo l’analogo annegamento dell’altra sorella, Myrtle). Questo atroce dolore viene in parte lenito dalla scrittura, quella stessa che le salverà letteralmente la vita, come dichiara la stessa Frame.
Jane Campion rende l’insensatezza di quanto è accaduto con un gioco di ellissi e contrasti: lo stesso treno che aveva visto una madre e una figlia (la sorella di Janet, Isabel) partire raggianti per le vacanze, ritorna ora con una bara. Al seguito l’anziana signora, i capelli improvvisamente sbiancati.
Ma il centro dell’inferno, la Giudecca in cui viene scaraventata Janet, è sicuramente l’esperienza straziante dell’elettroshock. La macchina da presa indugia in piano ravvicinato sull’apparecchiatura metallica. Janet viene sdraiata su un lettino. Accanto a lei altre pazienti, sottoposte al medesimo trattamento, urlano. Janet viene legata al letto, le tempie inumidite per piazzare gli elettrodi. E parte la prima scarica. Un’infermiera le infila prontamente in bocca uno straccio perché non si morda la lingua. La macchina da presa resta pietrificata su quel volto contratto dal dolore, poi carrella lentamente fino ai piedi, lungo il corpo teso fino allo spasimo.
E’ l’unica scena che ci mostra effettivamente quanto Janet sarà costretta a subire – come ci informa la voce fuori campo – per altre 200 volte nel giro di otto anni. Noi vediamo il trattamento una volta sola, poi mai più. D’ora in avanti la Campion preferirà indugiare sulle attese, sui tempi morti, sull’angoscia prima dell’ “esecuzione” (così come Janet definisce l’elettroshock).
Ma la scrittura salva. Così l’incontro con la scrittura poetica, come un angelo dalle mani proteggenti … un angelo rilkiano, creatura in cui è compiuta la metamorfosi dal visibile all’invisibile, e che verso l’invisibile trascina.
Allo stesso modo l’incontro con lo scrittore Frank Sargeson le permetterà, tornata a casa, di scrivere immersa nella natura, di passare le giornate a discutere con gli amici, ad ascoltare musica, a leggere poesie … fino a che una borsa di studio la condurrà in Inghilterra.
Parte terza: “L’inviato di Mirror City”
Il senso di quest’ultima parte si riassume nella nuova condizione di vita di Janet che, finalmente libera dall’incubo degli ospedali psichiatrici, è pronta per andare alla scoperta del mondo (e anche della relazione sessuale e amorosa).
Il suo viaggio in Europa anticipa per molti aspetti l’esperienza che vivrà Isabel in “Ritratto di signora”: entrambe ragazze del Nuovo Mondo (l’America per Isabel, l’Oceania per Janet) a contatto con la cultura, e le insidie, del Vecchio Continente.
In Spagna incontra il suo primo vero amore – Bernard, americano, appassionato di poesia – e la sua prima grande delusione: abbandonata all’improvviso, sola e indifesa, scopre di essere incinta.
Ad accudirla sono due ragazze spagnole, che ricordano le serve Maori di “Lezioni di piano” e il loro rapporto con Ada, la protagonista, che soffre, come Janet, di una grave difficoltà di comunicazione (Ada è addirittura muta).
A Londra, dove è tornata, Janet abortisce in segreto, in una drammatica e cupa sequenza notturna. Travolta da depressione e decisa a rinchiudersi come volontaria, di nuovo, in ospedale psichiatrico, trova finalmente medici (appartenenti alla corrente dell’antipsichiatria di Laing e Cooper) capaci di ribaltare la diagnosi di schizofrenia fatta in passato.
Inizia così la sua avventura di scrittrice di successo: nell’ultima immagine del film, ormai tornata in patria, mentre scrive alacremente nella sua roulotte, scandisce le seguenti parole finali: “Hush hush hush… l’erba il vento l’abete e il mare dicono hush hush hush.”
Janet Frame e Jane Campion a confronto
Jane Campion ha cercato di tradurre in immagini la specificità della scrittura della Frame. In particolare, entrando dentro la propria follia, Janet Frame costringe il lettore e lo spettatore – dal momento che la Campion si mette al servizio dell’opera della scrittrice, non prevaricandola mai – a guardare dentro di sé e, successivamente, alla realtà, con occhi nuovi, rendendolo consapevole di una dimensione più intima e vera che va oltre l’immediato e il visibile: il mondo della Frame che il film ci comunica è descritto in modo vivido e fisico nella sua semplicità e concretezza.
Lo stile della Campion è divenuto, nel corso del tempo, più maturo e contenuto, meno stridente e urtante dei suoi primi lavori – ad esempio “Sweetie” – ma anche meno teatrale, spettacolare, pur mantenendo un tocco “fatato”. La follia, che rappresenta il “focus” del racconto, è resa in modo sottile, soprattutto attraverso le reazioni di chi sta accanto alla Frame, con le piccole violenze quotidiane che subisce, i molti gesti di disattenzione e disamore che la feriscono intimamente.
Da una parte la Campion ci offre con immediatezza la vita reale e pulsante, dall’altra costruisce, seleziona e mette a fuoco in modo lucido la stessa realtà, scardinandola con un preciso lavoro formale sull’angolazione delle singole inquadratura. Con uno stile al contempo realistico e “irreale” ci fa percepire il mondo attraverso lo sguardo e la sensibilità della scrittrice neozelandese.
E’ stato scritto (recensione su “Le Monde” del settembre 1990) che: “Janet Frame e Jane Campion sono gemelle, dilaniate tra la meraviglia e il terrore dei ricordi amari, coscienti dell’intrusione dell’irreale nel quotidiano.”
Entrambi sono “vittime” di uno sguardo troppo intenso sulla vita e per questo in sintonia profonda per comunanza di sentire.
UN’AUTOBIOGRAFIA CON IL LINGUAGGIO DELLE IMMAGINI
Nel film ritroviamo i temi ricorrenti e più originali della Campion che, come in un trittico ideale, attraversano i suoi primi lungometraggi, da “Sweety“, ad “Un angelo alla mia tavola“, a “Lezioni di piano”.
In primo luogo, le analogie esistenti tra le protagoniste nonostante la loro marcata diversità di temperamento: Jane Campion ha sempre privilegiato un cinema di donne, “al femminile”, ma di donne anomale, fuori dalle convenzioni, la cui diversità è connotata da uno strano, inquietante blocco comunicativo. Sweety, abbarbicata al suo albero, scalpita e grida al mondo dentro il proprio autismo aggressivo e ribelle; Ada si nega alla parola riversando dentro la musica la travolgente passionalità del suo mondo interiore; Janet, la più timida, introversa e docile delle donne della Campion, patisce una forma di paura e desiderio di fuga dagli altri, interpretata erroneamente da chi la circonda come una dissociazione dell’io, quando è invece più correttamente leggibile come angoscia depressiva e impotente di fronte all’insensibilità altrui e alla morte che la minaccia – di cui è primo presagio l’annegamento della sorella. Una sorta di invadente malinconia la porta a ripiegarsi su di sé, a leggere dentro la sua anima le tracce dell’ispirazione poetica che, sole, come angeli protettori, possono riscattarla dal dolore del vivere, per dare forma a immagini incantate come quelle delle fiabe o dei racconti letti e ascoltati dentro le notti dell’infanzia, al calore di una candela accesa.
Una “diversa”, Janet, con la massa vaporosa e cespugliosa dei suoi capelli rossi che, come una macchia di colore acceso, riempiono lo schermo e connotano, sin dall’inizio, un timbro del carattere della scrittrice, un colore dell’anima, una diversità preziosa di cui la protagonista si farà sempre più consapevole e orgogliosa, nel corso della storia.
Il tema centrale, portante del film è quello del potere salvifico, illuminante, psicologicamente rasserenante del racconto poetico/fiabesco ma anche della scrittura letteraria.
Janet esce dal suo handicap, si salva dalla follia e dall’autodistruzione solo attraverso la scrittura, luogo del racconto di sé e della ricomposizione della sua identità più segreta.
E sul filo dei racconti magici intrecciati nelle ore felici dell’infanzia si ricostruisce una personalità spezzata dal dolore delle morti familiari, dagli orrori della guerra e dalla lacerazione causata dal tradimento d’amore – che piaga il corpo di Janet con un aborto e un doloroso dissanguamento.
La parte più lirica e poetica del film, quella meno documentaristica e biografica, è senz’altro la prima dove si susseguono le immagini della memoria infantile con un tocco lieve, delicato, femminile e con una freschezza, un candore straordinari: da questo preziosissimo serbatoio di ricordi la scrittrice, nell’ultima sequenza, ormai matura, ripescherà quel dolce, incantato cantilenare (hush, hush, hush il vento fa hush …) che è divenuto corpo di una ispirazione poetica capace di proteggere, appunto come un angelo, e stabilmente, la persona di Janet, ormai al sicuro dalle minacce del mondo esterno perché saldamente ancorata alle proprie radici affettive (il rapporto con la sorella) e alla terra. Il ritorno di Janet alla propria casa natale, al mare, alla natura verde (come verde è l’erba del prato della prima sequenza dove, piccolina, corre tra le braccia protettive e accoglienti della mamma) è, per la Campion, testimonianza viva di quel bisogno viscerale e profondo di ritorno alla terra madre che si fa’ incisivo nella costruzione dello spazio fisico di “Lezioni di piano“: acqua, legno, fondo fangoso del bush neozelandese.
La Campion è autrice “sensoriale” ,”terragna”, amante della natura vergine, intatta, imponente della Nuova Zelanda che l’ha generata e sedotta negli anni d’infanzia. Temperamenti artistici e anomali, dunque, quelli di Janet e di Ada, capaci di “riscegliere” la vita dopo l’affondamento nella notte, nel buio, nella disperazione della morte: centrale, in questo senso, per Janet, la sequenza in manicomio dove, nella stanza buia, riprende a vivere attraverso le parole che incide sul muro e, per Ada, quella della caduta verticale sul “fondo del mare profondo” con la subitanea, faticosa risalita alla luce.
Queste due vicende di donne, così geniali e così segnate dalla sofferenza di un rapporto arduo con la realtà, manifestano però, al fondo, una indomita volontà di vivere, di far vincere la vita sulla disperazione e sulla morte attraverso l’arte (musica o scrittura poetica), l’amore e gli affetti nonché il recupero delle proprie radici e della propria terra: ambedue le donne compiono un difficile, trasgressivo e sofferto viaggio iniziatico, prima di tutto e soprattutto in se stesse, per riguadagnare il rapporto con il mondo e con gli altri.
“Un angelo alla mia tavola” si snoda con un ritmo e con uno stile filmico più aderente ad un testo letterario, più didascalico di “Lezioni di piano” e quindi più centrato sul “caso” Janet, sulla sua malattia mentale, sulla possibilità di superamento della stessa – significativi sono anche i richiami all’efficacia terapeutica del metodo dell’antipsichiatria di Laing durante il soggiorno londinese.
“Lezioni di piano“, creato e costruito a partire da una intuizione autonoma della regista, se pur ispirato a “Cime tempestose” di Emily Brontë, appare meno preoccupato dello svolgimento narrativo e perciò più aderente al mondo interiore della Campion, con il suo impasto denso di musica, fisicità dei luoghi e dei corpi, profondità e violenza delle emozioni pure e incontrollabili: tutto questo è raffigurato nelle immagini attraverso una miscela di colore verde come il fondo di un acquario, evocativo di una sostanza primordiale simile al liquido amniotico ma capace anche di mutarsi nei toni del blu più rarefatto o del verde/blu pittorico del mare in burrasca. In particolare, ne “Un angelo alla mia tavola“, è il rosso ad assumere un forte valore simbolico: dalla massa ingombrante dei capelli di Janet questo colore si trasferisce, quasi con un naturale prolungamento, sull’abito della sorella morta, sul mattone delle tombe, sugli esterni naturalistici. Il rosso, colore dell’emozionalità calda e profonda, punteggia tutte le sequenze significative, ad eccezione di quelle girate in ospedale psichiatrico e nella stanza dove Janet abortisce. In questo caso il tono di colore grigio e spento, quasi cupo, sottolinea il suo stato di disperata solitudine interiore.
La centralità del corpo con la sua fisicità è un altro dei motivi ricorrenti della Campion, qui collegato alle vicende erotiche della protagonista. Il partner di Janet in Spagna riveste un ruolo essenziale nell’aiutarla a conquistare una sconosciuta libertà d’espressione gestuale e corporea, oltre le inibizioni e i blocchi psicologici che la imprigionavano ed irrigidivano sin dalla fanciullezza: esemplare, in tal senso, la gioiosa e solare sequenza del bagno di Janet nuda in mare, durante le vacanze sulle coste del Mediterraneo. Anche Baines, amante di Ada in “Lezioni di piano”, spinge la donna a liberarsi, attraverso una progressiva spoliazione, di tutti gli orpelli e gli impacci di cui è impastoiata a causa del severo abbigliamento vittoriano.
In sintesi, il cinema della Campion si rivela celebrativo dei valori più intimi e autentici del vivere quali quelli dell’interiorità, della forza consolatoria e redentrice dell’arte, della preziosa insostituibilità dell’infanzia per costruire un’identità personale che va salvaguardata, al di là e oltre ogni convenzione e costrizione sociale.
Così l’Autrice si inserisce nella linea di quel filone libertario e anarchico (sullo stile di Weir, famoso, tra l’altro, per “L’attimo fuggente“) che sembra una costante di certa cinematografia australiana. La sua opera di cineasta è però declinata “al femminile”, con un recupero dei tesori, anche più sommessi e “tradizionali” della femminilità, quali lo sguardo complice e partecipe, empatico, nei confronti del mondo infantile (si veda lo stupendo rapporto simbiotico tra Ada e la figlia Flora in “Lezioni di piano“), l’attaccamento alla terra madre, l’attenzione minuta ai dettagli della vita quotidiana ma, soprattutto, una straordinaria sensibilità nel tratteggiare i moti più intimi e segreti dei sentimenti.
La Campion si rivela, in conclusione, Autrice di vivissimo talento poetico.
PRENDIMI L’ANIMA
di Roberto Faenza – Italia, 2002, 90′
con Iain Glen, Emilia Fox, Craig Ferguson, Caroline Ducey
Progetto di regia
Dopo vent’anni di ricerche, a partire dal carteggio tra Jung e Sabine Spielrein, Faenza realizza Prendimi l’anima (2002). Ispirandosi, per la sceneggiatura, ad un libro di Aldo Carotenuto (psicoanalista junghiano recentemente scomparso), “Diario di una segreta simmetria” (1980), basato a sua volta sul ritrovamento degli autentici appunti della stessa Spielrein avvenuto nel 1977, il regista decide di raccontare le fasi essenziali della vita di Sabine servendosi di un contrappunto tra passato e presente: là la malata di mente, prima paziente che Jung curò col metodo freudiano anziché con cinghie e sedativi, è presa in carico da un medico illuminato e geniale, qui, nella Mosca di oggi, una studentessa francese e un professore scozzese (e la ricercatrice esiste davvero, si chiama anche lei Spielrein e sta ancora lavorando sui documenti perduti di Sabine) vanno alla ricerca delle tracce della Spielrein, ormai guarita da Jung e trasferitasi in Russia, mentre esercita il suo nuovo ruolo di madre ed educatrice quale fondatrice dell’Asilo Bianco di Mosca, in età staliniana, vera esperienza pedagogica d’avanguardia nella Russia socialista post-rivoluzionaria degli anni ‘20.
Il film racconta la storia di una donna straordinaria, quella Sabine Spielrein da cui Faenza dichiara di essere stato affascinato: una donna che, a suo dire, ha attraversato il secolo e ha conosciuto due grandi personaggi come Freud e Jung, con cui ha intrattenuto un rapporto molto stretto. Ancora, una donna ebrea e russa di nascita, portata a Zurigo dai facoltosi genitori nel 1904 per farla curare da Jung (a breve sul suo caso clinico), che sposò in seguito gli ideali della rivoluzione e del socialismo, assistendo però al loro degrado e alla loro degenerazione – il bambino sopravvissuto dell’Asilo Bianco di Mosca, rappresentato nel film ormai adulto, è stato una fonte di documenti eccezionali sul periodo vissuto a Mosca da Sabine.
Infine, una donna che ha saputo lottare contro il nazismo con un coraggio estremo, fino alla fine, quando sarà trucidata dalle SS nella sinagoga di Rostov. Faenza costruisce l’emblema di una figura femminile che si è sempre scontrata col potere degli uomini e del sistema: eroica, a questo riguardo, la lotta con la polizia politica del regime staliniano che le chiuderà brutalmente l’asilo modello per bambini disturbati che aveva fondato, caso pressoché unico in quel tempo di esperienza educativa in cui veniva ampiamente utilizzato il metodo di cura della psicoanalisi (aspetto, questo, che avvicina la Spielrein ad Anna Freud). E in ogni battaglia vissuta per affermare le proprie idee Sabine seppe sempre uscire a testa alta. Faenza è attratto dalla dimensione psicologica e relazionale tra Jung e Sabine che, più che maltrattata, è stata storicamente emarginata dai due fondatori della psicoanalisi, non è stata pienamente apprezzata per il suo valore.
La storia della psicoanalisi, invece, è fortemente debitrice alle donne per l’esperienza singolarissima delle sue prime pazienti. Esse hanno dato un contributo essenziale non solo all’indagine sul dolore e sul disagio psichico, ma anche all’universo del linguaggio dell’Eros e della passione, uno dei pochi consentito in quel tempo alle donne e che, nel caso di Sabine, tocca da vicino la relazione con Jung, trasformatasi gradualmente da terapeutica in un amore burrascoso, così scompensante e perturbante per lo stesso Jung da fargli incrinare (insieme ad altri motivi), e irrimediabilmente, il rapporto con Freud – cui all’inizio non ebbe il coraggio di svelare la natura del legame con la sua ex-paziente – e da cui egli stesso si salvò solo con la partenza da Zurigo per l’Unione Sovietica della stessa Sabine.
Il film, pur non essendo esplicitamente un testo sulla psicoanalisi, attraverso il particolarissimo legame tra Jung e Sabine ci fa entrare prepotentemente in questo discorso.
Interessante ricostruire il percorso che Faenza ha svolto in questo senso, attraverso un’esperienza che, come lui stesso dichiara, si può definire da “profano appassionato”.
In una intervista a Cineforum del 2007 racconta infatti che negli anni ‘60, quando era studente a Torino, Norberto Bobbio gli affidò uno studio sulla violenza in Freud: iniziò così, da parte del regista, una lettura attenta dei testi del padre fondatore con il supporto di Franco Fornari (psicoanalista). Ma ciò che più lo appassionò furono i casi clinici narrati da Freud, un serbatoio inesauribile di storie raccontate, col talento di un grande romanziere. Così nacque anche la iniziale motivazione per girare Prendimi l’anima, film costruito con l’apporto di molti consulenti esperti, di scuola sia freudiana che junghiana.
L’interesse primario resta però quello del racconto di una grande storia d’amore come fu quella tra Jung e Sabine, al di là del caso clinico curato dall’analista.
Così, attraverso i saggi di Johann Cremerius (Il potere non ha le ali candide) e Bruno Bettelheim (La Vienna di Freud) il regista trova elementi che illuminano la relazione tra i due protagonisti senza per questo voler sminuire o ridicolizzare Jung – come alcuni critici avrebbero sottolineato – ma semmai trovando interessanti spunti sul tema centrale, dal punto di vista psicoanalitico, del transfert e controtransfert, come si constata dalle lettere di Jung al maestro: in seguito a questa fitta corrispondenza – al tempo dei fatti narrati nel film i due protagonisti non avevano ancora direttamente incontrato Freud – Freud accetta di vedere Sabine che diventerà sua allieva e, successivamente, ambasciatrice della psicoanalisi in Russia.
La storia della psicoanalisi andrebbe rivisitata, secondo Faenza, alla luce della vicenda Spielrein perché forse la ragione della rottura tra i due pionieri può essere stata segnata anche da quella inquietante relazione di Jung con Sabine che, svelata a Freud dopo parecchio tempo, lo indusse a dubitare della lealtà dell’allievo eletto. Jung soffriva, in quel periodo, in concomitanza del dissidio con Freud, di vari “turbamenti”, sicuramente acuiti da questa relazione “trasgressiva”, così intensi da fargli pensare ad un possibile ricovero. Il maestro, nel momento in cui Jung ammette la sua colpa, non poteva non apparirgli come un “Super-io” fortemente inquisitorio. Proprio Sabine ha ripetuto fino alla fine che i due grandi psicoanalisti erano stati divisi più da motivi personali che scientifici … e forse gli storici della psicoanalisi hanno operato varie censure sul caso di Sabine, per non inquinare l’aura dei due cofondatori: queste censure sono volutamente cancellate da Faenza che intende restituirci intatta la vicenda umana della relazione tra i due protagonisti, anche con gli aspetti conflittuali da essa inevitabilmente scatenati. Ad esempio, il ruolo della moglie Emma (l’attrice Jane Alexander) quale autrice delle lettere anonime, fonte di diretta informazione della relazione amorosa alla famiglia Spielrein: nel film viene presentata come una donna intelligente e devota al marito ma anche pronta a tutto pur di preservare intatto il proprio nucleo familiare, con un persistente atteggiamento possessivo e protettivo al contempo.
Gli attori, interpreti di questa intricata vicenda psicologica, sono stati scelti con accuratezza, per rendere appieno l’intensità emotiva di cui la storia è pervasa. Da Yan Glen – attore scozzese conosciuto dal regista a Londra, dove lavorava in teatro a fianco di Nicole Kidman ( Blue room ) – signorile, compito e molto affascinante, decisamente in parte, alla protagonista Emily Fox (già apparsa ne Il pianista di Roman Polanski). L’interpretazione del ruolo di Sabine risulta notevole, tanto l’attrice si mostra capace di trasformarsi e “crescere” durante la storia, da perduta e fragile inizialmente, a donna sensuale e determinata, in perfetta sintonia con quanto il regista si immaginasse che fosse il suo personaggio. Resta nitidamente impresso nella memoria il suo smagliante e accattivante sorriso mentre, sui titoli di coda, canta, ritmandola, la bellissima e struggente ballata kumbalalaika, mentre la macchina da presa indugia sul suo volto, a marcare, con la sua presenza, anche le ultime immagini del film.
Film di cui è stata in genere apprezzata l’ottima e accurata fattura nell’ambientazione e nel montaggio, la sceneggiatura diligente, corretta, senza impennate di genio, oltre che l’interpretazione di buon livello dei protagonisti, come già evidenziato. Insomma una specie di puzzle ben costruito, come alcuni critici hanno decretato.
Resta però da spiegare come mai il pubblico si sia tanto coinvolto, manifestando un incredibile favore al film, più che per altre opere di successo del regista, come Sostiene Pereira o, ancor più, Jona che visse nella balena, ad esempio. Un successo davvero straordinario, ammette quasi con stupore lo stesso Faenza: “Ho visto gente uscire sconvolta dalla proiezione, altra applaudire nel finale, insomma reazioni non usuali e che certo non mi aspettavo.” (Intervista a Cineforum, cit.)
Ma Faenza non ha dubbi sulla ragione di queste reazioni, così intense: il merito è tutto di Sabine, una donna davvero capace di “prenderci l’anima”.
SABINE SPIELREIN
DA CASO CLINICO A PIONIERE DELLA PSICOANALISI
Le carte che Aldo Carotenuto (psicoanalista junghiano per molti anni docente di Teorie della personalità all’Università di Roma) trovò per puro caso nel 1977 erano appartenute alla Dott. Spielrein, che lavorò a Ginevra negli anni ’20: risultavano da lei stessa abbandonate in quel luogo quando decise, nel 1923, di ritornare alla natia Russia (era nata a Rostov, sul Don, nel 1885).
Di famiglia ebrea, colta e benestante – nonno e bisnonno erano stati rabbini molto rispettati – fu condotta dai genitori a Zurigo, alla clinica Burghölzli, allora ospedale psichiatrico di fama non solo europea, dal momento che, già durante l’adolescenza, Sabine soffriva di un disturbo considerato da alcuni di tipo schizofrenico, da altri come una grave forma di isteria con tratti schizoidi.
Del caso clinico ci parla direttamente Jung, che la curò, prima come paziente interna, poi esterna alla clinica – in una lettera a Freud dell’ottobre 1906 Jung espone il caso di Sabine: ammalata da sei anni, subì un primo trauma verso il terzo/quarto anno di vita, alla vista del padre che percuoteva il fratello. Il sintomo più preoccupante che la paziente manifestava era l’impedirsi di defecare, anche per intere settimane. Jung descrive il caso come quello di una classica isteria.
Sappiamo che la paziente schizofrenica sarebbe poi diventata lei stessa una studiosa della schizofrenia, un medico che cura i disturbi mentali, una pensatrice originale che sviluppò idee di grande importanza sia all’interno del sistema freudiano che junghiano. Anche Carotenuto, nel fondamentale testo sulla relazione tra Jung e Sabine (“Diario di una segreta simmetria”, cit.), avvalora la tesi del forte influsso che la Spielrein esercitò sul pensiero di Jung e, conseguentemente, sullo sviluppo storico del movimento psicoanalitico. E’ indubbio che Jung trovò in Sabine la sua “Anima”, l’immagine dell’anima, cioè della donna nell’inconscio dell’uomo. Così egli iniziò ad intravvedere il ruolo centrale che l’anima ha nella vita di un uomo. Sabine forse non fu la creatrice ma sicuramente l’ispiratrice di questo concetto. Ancora, pochi anni prima che Freud incorporasse nel suo sistema il concetto di “istinto di morte” (“Al di là del principio del piacere”) e gli assegnasse un ruolo essenziale nel suo sistema, la Spielrein scrisse e pubblicò, nel 1912, il suo saggio sulla distruzione come causa della creazione, in cui presentò le sue tesi sull’istinto distruttivo, o di morte, nell’intricato rapporto che esso intrattiene con l’istinto sessuale.
Così come diede un importante contributo – con la sua profonda intelligenza e lo straordinario intuito psicologico – al pensiero di Freud, in un’epoca in cui il suo sistema era già stato sviluppato, sembra logico pensare che ella contribuisse, in modo ancor più significativo, al pensiero di Jung, allora ai suoi inizi, in un periodo in cui egli lavorava in stretto contatto con lei. Le carte scoperte da Carotenuto sembrano far pensare che alcuni dei principali concetti junghiani siano, direttamente o indirettamente, dovuti alla Spielrein.
Non solo il concetto di Anima, ma anche quello di Ombra (la personalità repressa, inconscia) sembra risalire a Sabine, meglio alla relazione che Jung intrattenne con lei. Infatti Jung così scrive, riferendosi alle esperienze vissute con la sua prima paziente: “ Non mi sembra difficile pensare che in particolar modo le ipotesi della Persona, dell’Ombra e dell’Anima siano il distillato di quelle antiche esperienze.”; e ancora, nei “Ricordi”: “Sapevo per certo che la voce (dell’inconscio) proveniva da una donna e vi riconoscevo la voce di una paziente, una intelligente psicopatica che aveva per me un forte transfert e che mi si era impressa nella mente come una figura viva.”
Più in particolare, attraverso il rapporto con Sabine, Jung scoprirà quel “sacrario” di immagini interne, una sorta di regno delle Dee, che rappresentano i differenti volti dell’universo femminile, l’Anima appunto, quale dimensione “animica” della stessa psiche maschile. E, ancor più, scoprirà una serie composita di quelle stesse immagini simbolizzanti, ognuna, una determinata funzione psichica. Non più solo Eva, quale rimando al pulsionale biologico, ma anche Elena, ossia l’aspetto estetico/romantico, Maria, la dimensione spirituale, e infine Sofia, la sapienza in cui l’amore si svela tutt’uno con la conoscenza: tutte immagini archetipiche corrispondenti alle molteplici espressioni delle potenzialità psichiche umane.
Così che, quali che siano stati i contributi specifici della Spielrein al sistema junghiano, fu dalla loro storia d’amore che il sistema trasse la sua spinta ispiratrice.
Ma le vicissitudini scaturite da questa burrascosa relazione devono aver avuto un ruolo importante anche rispetto all’amicizia tra Freud e Jung, a prescindere da altri e complessi motivi psicologici e teorici che ne hanno disturbato il corso, e determinato la fine. Non a caso la loro amicizia ebbe inizio quando Jung si rivolse a Freud con una insistente richiesta di aiuto nella gestione dei suoi sentimenti per Sabine, ed ebbe fine dopo che la stessa Sabine cessò di essere l’intima amica e la discepola di Jung per diventare seguace di Freud. E’ probabile che Jung creasse con la sua paziente un profondo intreccio, “una segreta simmetria”, in cui Sabine cercava una imago paterna rassicurante e amorevole mentre, parallelamente, Jung chiedeva a Freud l’appoggio, il consiglio e la complicità di un padre. E tutto questo senza trascurare il fatto che Freud, alla ricerca di una folta sudditanza e di un degno successore, aveva scelto Jung come figlio adottivo ed erede nella guida della psicoanalisi: ricordiamo che Jung era figlio di un pastore svizzero, aveva una posizione di prestigio al Burghölzli, elementi questi che avrebbero potuto rendere la psicoanalisi più accetta ai Gentili e dunque lontana dalle diffidenze culturali verso l’ebraismo. Questa complessa situazione “edipica” tra Freud e Jung si misurò nel dibattito intorno a posizioni teoriche differenti. Il contrasto fondamentale tra i due, su di un piano ufficiale, riguarda il rifiuto di Jung ad accettare il ruolo centrale della sessualità nelle vicende umane. La Spielrein intervenne a più riprese nel rapporto tra Freud e Jung, intuendo che tra i due serpeggiasse un sentimento di sotterranea gelosia, dopo che ella era diventata di sicura osservanza freudiana, anche se emotivamente ancora legata al suo terapeuta.
Sabine era convinta che il disaccordo teorico tra i due analisti avesse molto a che fare con le difficoltà personali incontrate da Jung con Freud e con lei, forse più che con nette divergenze teoriche in senso stretto: queste, inoltre, sarebbero state, se non del tutto risolte, almeno attenuate se i due avessero deposto le loro animosità personali. In questo senso si adoperò molto coi due fondatori prima di ritornare in Russia.
Comunque, l’avvenimento più significativo nella giovane vita di Sabine fu che la terapia di Jung la guarì. In questo senso qualsiasi comportamento di Jung verso di lei, fosse esso definibile come terapia, seduzione, transfert, amore o quant’altro, fu funzionale a questa guarigione. Per quanto opinabile possa essere, dal punto di vista morale e deontologico, un atteggiamento terapeutico eterodosso, forse poco coscienzioso sul piano professionale, egli – come ben sottolinea Bettelheim nel saggio introduttivo al testo di Carotenuto – seppe assolvere bene, con successo, al primo compito di un medico verso un paziente: quello di guarirlo.
Certo, a causa del modo particolare in cui fu curata, Sabine pagò un alto prezzo in termini di infelicità, confusione e disillusione … ma dalle testimonianze vive delle sue lettere e del suo diario, Sabine Spielrein emerge come una donna straordinaria, che coraggiosamente osò vivere la sua vita, coerentemente con le proprie convinzioni, qualunque cosa il mondo pensasse di lei per il fatto che intratteneva una relazione sentimentale con un uomo in vista, sposato e con figli.
Rimase fedele al suo primo amore, che l’aveva strappata alla follia, nonostante il “tradimento” di lui – che non esitò a calunniarla, poi ad abbandonarla per non far esplodere lo scandalo sia in famiglia che professionalmente, anche nei rapporti col maestro Freud.
Il suo successivo matrimonio, e l’aver avuto più tardi due figlie dal medico, forse ebreo, che aveva sposato, non inficia la profonda fedeltà e appartenenza interiore al suo terapeuta-salvatore.
Sabine seppe resistere alla follia e all’abbandono, seppe trovare in sé il coraggio di levare alta la sua voce, cambiando, con la sua presenza e influenza, il destino del movimento psicoanalitico attraverso il rapporto con i due grandi uomini cui rimase costantemente legata.
Rivestì i panni della “vittima sacrificale” (rinunciando al suo amore, andandosene) ma nel sacrificio
si dimostrò più forte dei suoi temibili avversari. Riuscì a compiere grandi cose, con la dedizione e la perseveranza di una Alcesti che, quando tutto sembra perduto, quando tutto si è sacrificato, risorge a nuova vita. E ricordiamo che attraversò la morte ben due volte: la prima, quando riuscì ad emergere dai vortici e dalla notte della follia; la seconda, quando si trovò abbandonata dall’uomo che, oltre ad averla amata, l’aveva anche salvata. Sono queste le esperienze che marchiano l’anima nel profondo – come un naufrago che, scampato a morte certa, ne continua a portare l’orrore dentro di sé.
Il suo saggio, ricco di straordinaria intuizione psicologica, sull’impulso distruttivo come componente essenziale della psiche, in forma antagonista alla creatività, risentì sicuramente di queste dolorose esperienze.
Sul piano esistenziale, mentre Freud e Jung permisero ai loro impulsi distruttivi di separarli, Sabine rimase abbarbicata tenacemente ad un impulso creativo e riconciliatorio che si augurava capace di condurre i due fondatori, insieme, ad una comune impresa per il beneficio dell’umanità. Ella mostrò sempre una profonda sicurezza riguardo ad un sostanziale accordo tra i due sulla centralità dell’inconscio e, ancor più, sulla necessità di ammansirlo e dirigerlo verso scopi costruttivi. A questa unificazione della psicoanalisi continuò instancabilmente a dedicarsi per il resto della sua vita.
Nel 1923 la Spielrein venne accettata, dopo averne discusso con Freud, nella Società Psicoanalitica Russa, pubblicando in seguito vari articoli su riviste specializzate e, soprattutto, fondando una casa per bambini con la speranza di offrire loro, in comunità, una vita migliore e più serena rispetto a quella delle famiglie di provenienza (l’esperimento richiamava, nello spirito innovativo, quello di Vera Schmidt della “Casa dei bambini”).
La sua delusione fu terribile quando, nel 1936, in pieno stalinismo, la psicoanalisi fu messa fuori legge e il suo asilo chiuso. A Sabine non restava altro da fare che tornare a Rostov, sul Don, sua città natale, dove continuò l’attività di insegnamento presso la locale università fino alla sua scomparsa, per mano delle truppe naziste, come già ricordato.
La Spielrein, al di là di ogni valutazione interna alla storia del movimento psicoanalitico, ci testimonia, anche come donna, ciò che significa essere un individuo creativo che riesce in un’opera di universalizzazione dell’esperienza personale: il prodotto che ne deriva, pur rivelando stratificazioni di complessi, di ferite, di questioni non risolte è l’opus creativo del singolo, il suo contributo alla collettività, l’eredità che lascia ai posteri a testimonianza del “talento” fatto fruttificare (A. Carotenuto).
Breve nota di confronto
Uscito nelle sale a fine settembre 2011, “A dangerous method ” di David Cronenberg riprende il “caso” Spielrein con gli stessi protagonisti della vicenda già narrata da Faenza in “Prendimi l’anima”.
Si è parlato, per questo film recente, di scelte registiche arricchite dal talento di interpreti quali Michael Fassbender (nei panni di Yung), reduce dal recente premio della Coppa Volpi all’ultimo Festival del Cinema di Venezia – per il film Shame – e della performance di Viggo Mortesen (nei panni di Freud).
Cronenberg torna ad una poetica classica con una indagine sulla psiche e sulla complessità della vicenda umana cui non è estranea la sua filmografia ( si veda “Spider”). La sceneggiatura vanta la firma del premio Oscar C.Hampton, che ha tratto il materiale da un testo teatrale, “The Talking Cure” (La terapia delle parole), a sua volta ispirato al romanzo di John Kerr (edito in Italia da Frassinelli). Nel libro di Kerr, così come nel film di Cronenberg, la storia della collaborazione tra Freud e Jung mette in luce quanto sia stata significativa l’interazione tra le idee del fondatore della psicoanalisi e quelle del suo prestigioso allievo, poi dissidente. Non a caso la parte più stimolante e convincente del film si concentra nei dialoghi dei due protagonisti, capaci di coinvolgere lo spettatore col fascino delle loro teorie, anche per la vis retorica e l’intensità recitativa con cui sono espresse. Due protagonisti che mettono forse in ombra la figura di Sabine, la cui personalità “isterica” è tratteggiata in modo forzato e riduttivo, senza evidenziarne gli sviluppi successivi la guarigione, con la centrale esperienza moscovita, ad esempio, e senza trascurare il fatto che l’interpretazione dell’attrice Keira Knightely risulta inadeguata al compito. Tra l’altro, le scene di sesso che la riguardano sono impostate con eccessiva crudezza, come se il regista volesse fare del sesso senza tabù l’argomento cardine di una relazione – quella tra Sabine e Yung – ben più complessa e ricca di sfumature psicologiche (come ce la rappresenta invece Faenza, sulla scia del testo di Carotenuto, cit.).
Ben altro lo spessore e l’intensità del personaggio Sabine in “Prendimi l’anima”, in cui si impone attraverso un alto e vibrante ritratto di donna dalle doti eccezionali, quale fu in realtà, al di là e oltre la malattia mentale e la relazione amorosa con lo stesso Jung.
Film, quello recente di Cronenberg, di notevole interesse culturale nel focalizzare i temi che hanno rivoluzionato le Scienze umane del ‘900; poco convincente nell’illuminare la geniale e complessa figura di Sabine Spielrein, che invece è essenziale valorizzare, al fine di restituirle quel ruolo fondamentale nell’evoluzione del pensiero e del movimento psicoanalitico che, come si è detto, è stato storicamente troppo misconosciuto e sottaciuto.