Giovedì 22 Marzo alle ore 20.30 presso il Teatro Nuovo, sito in Viale dei Mille 39, a Varese, la Compagnia Frosini/Timpano presenta “Acqua di Colonia”, di e con Elvira Frosini e Daniele Timpano.
Il tema dello spettacolo sarà il colonialismo italiano.
“Cose sporche sotto il tappetino, tanto erano altri tempi, non eravamo noi, chi se ne importa. È acqua passata, acqua di colonia, cosa c’entra col presente? Eppure ci è rimasta addosso come carta moschicida, in frasi fatte, luoghi comuni, nel nostro stesso sguardo. Vista dall’Italia, l’Africa è tutta uguale, astratta e misteriosa come la immaginavano nell’Ottocento; Somalia, Libia, Eritrea, Etiopia sono nomi, non paesi reali, e comunque “noi” con “loro” non c’entriamo niente; gli africani stessi sono tutti uguali. E i profughi, i migranti che oggi ci troviamo intorno, sull’autobus, per strada, anche loro sono astratti, immagini, corpi, identità la cui esistenza è irreale: non riusciamo a giustificarli nel nostro presente. Come un vecchio incubo che ritorna, incomprensibile, che ci piomba addosso come un macigno.”
Biglietti: Interi 17€ – Ridotti 15 € – Studenti 12€
Informazioni e prenotazioni via email ad arciragtime@gmail.com
Biglietti online: https://www.vivaticket.it/ita/event/acqua-di-colonia/101054
Riporta la critica: “Il testo porta alla luce i comportamenti – rimossi o negati – che contrastano con l’immagine accreditata degli «italiani brava gente», gli attacchi coi gas, i massacri.
Il vero sale dello spettacolo sta però nella franchezza con cui i due autori-attori non temono di scavare nelle piccole intolleranze quotidiane di fronte a un venditore di fiori extra-comunitario, riesumano i versi di un trucido motivetto («Odio il Kebab / e il Ramadan») che girava nel 2014 su Internet, giocano sul tabù di Faccetta nera, che tutti conoscono, ma che – sul loro invito – nessuno osa cantare, per non assecondare il proto-fascista che si cela potenzialmente in ciascuno di noi. Frosini e Timpano, intelligenti, caustici, velenosi, sono bravissimi a destreggiarsi fra fumetti d’epoca, canzoni, regi decreti, discorsi pubblici di allora e di oggi: lascia il segno, ad esempio, la loro citazione dell’efferato Topolino in Abissinia («ho promesso alla mia mamma di mandarle una pelle di un moro per farsi un paio di scarpe»), poi ripreso nel finale, in cui appaiono con le orecchie da topo e le maschere antigas. Dopo la scomparsa di Paolo Poli, i due attori romani – se l’accostamento non sembra irriguardoso – sembrano gli unici in grado di attingere a un certo variopinto bric a brac che svaria dai motivetti di Rodolfo De Angelis all’accorata melassa di Addio sogni di gloria (struggente, però, nell’esecuzione finale di Giuseppe Di Stefano).
I momenti migliori sono quelli in cui riescono ad andare sul terreno che è a loro più congeniale, ovvero i graffianti ritratti – politicamente scorretti – di alcuni miti inattaccabili dei nostri tempi: lei è irresistibile nei panni di un Pasolini sprezzante e pieno di sé, santo patrono di «radical chic, hipster, intellettualini piccolo borghesi» che non lo hanno mai letto e lo citano a sproposito. Lui tratteggia impietosamente un Indro Montanelli che parla della sua militanza africana come di una lunga vacanza, vantando le grazie della moglie dodicenne, un «animalino docile» comprato «assieme a un cavallo e a un fucile, tutto a 500 lire». Ma ce n’è anche per Benedetto Croce («zoologicamente e non storicamente sono uomini»), per Kant, per Hegel, per Rousseau. Di fronte a tanta abbondanza, è eccellente l’idea di porre al centro della scena, nella prima parte, una ragazza di origine africana reclutata di volta in volta nella città dove si recita, che ascolta in silenzio, sorridendo di tanto in tanto e incarnando con tacita eloquenza il ruolo di quegli immigrati o figli di immigrati che sono l’oggetto passivo della rappresentazione, di cui è bene parlare, ma ai quali non è riconosciuto il diritto di esprimere il proprio punto di vista.”