All’interno del programma offerto da Glocal 2014 si è tenuto sabato 15 Novembre un incontro dedicato al giornalismo digitale in Italia, con la presentazione di due ricerche e l’intervento di numerosi esperti del settore. A prendere parola per primo è Pino Rea, giornalista e consigliere regionale dell’Ordine dei giornalisti, che espone i punti salienti della ricerca portata avanti dall’ordine nazionale (qui il rapporto completo). Nonostante la carta domini ancora e il digitale è visto spesso come una piattaforma di secondo livello, Rea spiega come ormai “la talpa del cambiamento sta scavando”. Ad esempio, il giornalismo digitale inizia ad essere un bacino di professionismo, con un 5,5% di candidati per l’esame di stato che ha svolto un praticantato in una redazione online. Secondo Rea, infatti, “il giornalista è chi produce giornalismi, a prescindere dalla piattaforma”. Come si diceva, però, la carta ha ancora un peso molto forte, tanto che anche alcune testate native online adottano gerarchie e metodi di lavoro di stampo tradizionale: “la cultura della carta domina incontrastata”, come ci dice il relatore. Accanto a questi sintomi di resistenza, però, si assiste a una grande trasformazione nella figura del giornalista, con una contaminazione di ruoli e compiti, tanto che i giornalisti sono oggi anche tecnici.
L’altra ricerca che viene presentata all’incontro è Spazi fluidi – l’informazione toscana in rete, esposta da Emiliano Ricci dell’Università di Firenze (qui il link alla ricerca) . Ricci è anche e soprattutto tecnico del web, infatti le sue osservazioni vertono in gran parte su questo tema. Per quanto riguarda una testata online, ci spiega, è importante l’interfaccia del web, che deve essere efficace, efficiente e soddisfacente: deve quindi garantire il massimo dell’usabilità nella reperibilità delle informazioni e nel tempo di ricerca. Dalle testate analizzate è emerso che, spesso, nemmeno i siti nativi digitali soddisfano questi criteri, dando più spazio invece all’ottima qualità del contenuto giornalistico. Ricci spiega però come siano importanti “non solo i buoni contenuti, ma anche la forma con cui i contenuti sono presentati”. Pensando invece all’infoarchitettura, anche in questo settore spesso le testate online non osano sperimentare, ma si limitano a replicare la classificazione dei contenuti presente nei giornali cartacei: cronaca, esteri, politica…
Della stessa opinione è Philip De Salvo, web editor per European Journalism Observatory e freelance per Wired, secondo cui “l’usabilità è fondamentale”. De Salvo sottolinea la forte differenza tra chi fa e chi studia giornalismo e la resistenza culturale riscontrabile in Italia. “Il digitale è stato sempre interpretato come uno strumento e non come un linguaggio, una cultura”, da qui, il dover pagare per fruire della maggior parte dei contenuti in mobilità, la poca trasparenza delle testate online, l’assenza di un vero dialogo tra testate e lettori e un 57% di redattori che non mette link alle notizie. Dati negativi per il giornalismo digitale, derivati dal fatto che si ha paura che la rete indebolisca lo status professionale dei giornalisti, quando non è così. I vocaboli giusti da tenere a mente per il giornalismo digitale sono, a parere del moderatore Marco Renzi, la narrazione e l’iperlocale. La narrazione è la chiave per coniugare il giornalismo con i nuovi strumenti, mentre l’iperlocale è dove risiede il modello di business, con esempi di successo come Varese News o le redazioni locali de Il tirreno.
Della stessa opinione è anche Fabio Minazzi, docente dell’università dell’Insubria, che ribadisce la mancata divisione dei ruoli esistente oggigiorno all’interno di una redazione e suggerisce “una formazione tradizionale con l’apertura alle nuove realtà, poiché la tecnologia è cultura”. A suo dire, bisogna vedere lo spessore culturale della tecnologia e farsi impressionare dal calo di abitudine alla lettura, da inquadrare come un problema culturale che deve essere risolto.